L’educazione interculturale
Por Agnese Niero e Luciano Pasqualotto (IT)
Fonte: www.educare.it
Lo specifico dell’educazione interculturale è costituito dai processi di apprendimento che portano a conoscere altre culture e a instaurare nei loro confronti atteggiamenti di disponibilità, di apertura, di dialogo. Si tratta di un tipo di conoscenza estremamente complesso: conoscere un’altra cultura significa rilevarne gli aspetti che la fanno «diversa» dalla nostra, ma significa anche capire che la rappresentazione che noi ci facciamo della cultura «altra» non coincide necessariamente con quella che essa si fa di se stessa, né con le rappresentazioni che altre culture ancora si possono costruire. L’intreccio di queste rappresentazioni -che si manifestano spesso in forme di stereotipi- costituisce la trama complessa dell’interculturale [1].
Secondo Casillo «l’obiettivo primario dell’educazione interculturale si delinea come promozione delle capacità di convivenza costruttiva in un tessuto culturale e sociale multiforme. Essa comporta non solo l’accettazione ed il rispetto del diverso, ma anche il riconoscimento della sua identità culturale, nella quotidiana ricerca di dialogo, di comprensione e di collaborazione, in una prospettiva di reciproco arricchimento» [2].
E’, insomma, il superamento di una situazione statica, multiculturale di fatto, a favore di un processo basato sull’incontro-confronto, sul dialogo tra i valori proposti da persone diverse, prima ancora che da diverse culture. L’educazione interculturale si rafforza, pertanto, «sui motivi dell’unità, della diversità e della loro conciliazione dialettica e costruttiva nella società multiculturale» [3].
«Si può comprendere come tale modello, nato sulla spinta dell’arrivo degli immigrati, si sia poi sviluppato nei termini di una dimensione interna all’educazione stessa, uno «sguardo» (…) da promuovere in tutti. (…) L’educazione interculturale diviene così un’attitudine alla relazione con l’altro nella sua complessità umana, culturale, storica» [4]. Per Demetrio e Favaro essa è l’esplicazione propria una «pedagogia relazionale» [5].
In chiave pratica, ci sentiamo di condividere l’opinione prevalente [6] secondo la quale l’interculturalità, più che fondare una «nuova educazione», è una sorta di «promemoria», un pressante richiamo ad alcuni valori comuni che fanno già parte della tradizione pedagogica moderna.
Nell’educazione interculturale si ripropongono infatti i concetti del rispetto, del dialogo, dell’accettazione, del confronto, della non-violenza, della pace, perseguibili attraverso un «sistema di educazioni» che cercheremo di «scomporre» solamente ai fini della disquisizione teoretica. Per tale motivo, l’analisi che segue non ha alcuna pretesa di esaustività.
Educazione alla reciprocità
Il Corallo, trent’anni or sono, delineava tra i fini dell’educazione quello della reciprocità, tesa ad avvalorare la dignità del prossimo, a «considerare sé come un altro per gli altri, e gli altri come degli «io» per sé stessi» [7]. Egli sosteneva che l’educazione, in particolare quella «sociale», dovrebbe far acquisire l’abilità di allacciare rapporti corretti con i propri simili, che si concretizzano nello scambio «del dare e dell’avere».
Similmente il Catalfamo sostiene l’educazione all’alterità, la quale deve promuovere l’attitudine a convivere e a collaborare con gli altri, «per conseguire una più alta affermazione del valore di ciascuna e di tutte le persone, che costituiscono la società» [8]. Nella stessa prospettiva, oggi il Galli afferma che l’educando va «spronato a recepire i significati dell’essere con e per gli altri, a sviluppare disposizioni allocentriche, ad avere rapporti cordiali con il prossimo» [9].
Sono tutti concetti validi anche per l’educazione interculturale. Secondo Bertolini, ad esempio, essa «va intesa come un «movimento di reciprocità» attraverso il quale l’una cultura e l’altra e quindi gli individui portatori di una cultura e di un’altra -indipendentemente dalle differenze o proprio utilizzando tali differenze- sono meglio in grado sia di comprendere se stessi e di correggere il «senso» che le stesse condizioni esistenziali differenziate hanno per ciascuno di loro, sia di continuamente rivedere e riadattare il proprio sapere e di conseguenza i propri comportamenti» [10].
Ma per imparare a stabilire un autentico rapporto interculturale, avverte Blezza Picherle, «non sembra sufficiente ricorrere alla sola informazione ed alla pura logica discorsiva ed argomentativa» [11]. Bisognerebbe ricorrere contemporaneamente anche alla sfera intuitiva. Infatti lo sviluppo di un’abilità «eterocentrica» è «rara e difficile da acquisire, perché trascende la dimensione puramente ed esclusivamente razionale ed intellettiva». E’ necessaria «una diversa forma di conoscenza, quella intuitiva appunto, che consente di capire meglio l’altro, anche in ciò che egli non riesce o non vuole esprimere pienamente» [12].
E’ la ripresa del concetto pascaliano dell’ésprit de finesse, il quale, al contrario dell’ésprit de géometrique, è spirito che coglie le sfumature inafferrabili alla ragione, che ci porta nel cuore stesso delle persone.
Educazione alla complessità
La complessità è tra le categorie interpretative della nostra società quella che sembra godere di particolare successo. La complessità oggi è divenuta un settore interdisciplinare di studio su cui convergono pedagogisti, psicologi, sociologi. «Sotto il profilo socio-culturale -scrive Caimi-, parlare di complessità significa alludere a uno scenario fortemente mosso, magmatico, non più dominabile da una logica unitaria e sottoposto a cambiamento accelerato» [13].
Tra le caratteristiche della società complessa, si evidenzia il moltiplicarsi dei «luoghi dell’educazione» e delle agenzie educative, la grande offerta di informazioni (opulenza comunicazionale), la caduta di «evidenze etiche» condivise [14]. Vi è inoltre la tentazione di cercare sicurezza, rifugio in «nicchie ecologiche» fatte di particolarismi etnocentrici, di legami di sangue, di fede, fisico-spaziali.
L’educazione alla complessità in chiave interculturale acquista allora il significato d’insegnare ad andare oltre i propri particolarismi, ad abbandonare le adesioni acritiche alle ideologie per imparare a ricercare le differenze.
Secondo Demetrio e Favaro ciò sarebbe ancora insufficiente. Essi scrivono: «la pedagogia interculturale consiste nell’educare non semplicemente alla conoscenza delle differenze riscontrabili in soggetti di origine culturale diversa, ma nell’educare alla transitività (o mobilità) cognitiva» [15]. Secondo Larocca: «la responsabilità cui si è chiamati dai «segni dei tempi» è quella di anticipare nell’educazione degli uomini di domani la flessibilità, o, se si vuole, di rendere più umano l’uomo, ovvero aiutarlo ad essere più capace di perseguire l’universale e il permanente entro il mutamento continuo» [16].
Educazione alla comunicazione interpersonale
Nell’intento di favorire nei soggetti la formazione di disposizioni interculturali è fondamentale anche educare ad una corretta e rispettosa comunicazione interpersonale.
La scuola di Palo Alto ha chiarito che, nel trasmettere qualsiasi tipo di messaggio con la parola (scansioni di contenuti e di concetti), l’uomo usa un livello chiamato «numerico», il quale, però, è sempre congiunto ad un altro più nascosto, ma altrettanto importante, definito «analogico», trasmesso dalle pause, dallo sguardo, dalla mimica, dai vari movimenti e pose del corpo, dal tono di voce, ecc.
Il livello analogico, secondo Watzlawick e collaboratori [17], sembra comunicare la definizione che un interlocutore opera sull’altro e quindi il tipo di considerazione per l’altra persona. Pertanto vi può essere nascosta anche nella comunicazione che esprime «numericamente» tolleranza «la più sottile delle violenze: la disconferma nei confronti dell’identità dell’Altro, la mancata presa in carico della provocazione che la sua diversità ci pone di fronte, la squalifica dell’interlocutore» [18].
Larocca, riprendendo e ampliando quanto esposto nel famoso testo «Pragmatica della comunicazione umana», presenta tre diversi tipi di comunicazione analogica.
1. Comunicazione simmetrica, quando ad un comportamento si risponde con uno simile, paritetico. E’ il modello tipico della competizione, nella quale tutti e due gli interlocutori vogliono dominare. «La guerra aperta conclude l’escalation» [19] dell’aggressività reciproca.
2. Comunicazione complementare rigida, «quando uno dei due (interlocultori), … tende a star sempre sopra e l’altro si adatta a stare sotto, uno ad autodefinirsi superiore, migliore e quindi ad avere l’ultima parola e l’altro accetta senza batter ciglio e senza mai cercare una rivalsa. (…) Una simile comunicazione (…) non è da accettare da un punto di vista pedagogico; infatti uno dei due si perde in virtù dell’orgoglio e l’altro non orienta le sue azioni in modo che anche il primo possa realizzare la propria umanità» [20].
3. Comunicazione complementare fluida, in cui i due interlocutori si completano a vicenda, nell’alternanza dei ruoli e della dominanza. «Qui non serve essere riconosciuti migliori dell’altro; non ci si sente sminuiti anche nel caso in cui ci si sottopone» [21]. E’ il tipo di comunicazione migliore, la sola che dispone in posizioni reciproche di ascolto, che favorisce forme allocentriche ed empatiche con l’altro.
Dunque l’educazione interculturale si realizza anche attraverso la disposizione a questo tipo di comunicazione, nella quale l’accettazione e la conferma si esprimono tanto a livello «numerico» che «analogico». Ma se effettivamente l’ascolto empatico è condizione di un autentico dialogo interpersonale, esso è reso possibile principalmente dal silenzio interiore.
Nel silenzio percepiamo le esigenze profonde del cuore, nostre e degli altri. Esso ci permette di cogliere ciò che l’altro dice oltre le parole, quello che «metacomunica». «Non è uno stato di vuoto assoluto -avverte Silvia Blezza Picherle-, bensì di vuoto parziale, in cui è importante ed essenziale cercare di riconoscere, controllare ed allontanare soprattutto un certo tipo di attività psichica che può impedire in modo vistoso l’accoglimento del messaggio dell’altro, del «Tu»» [22]. Il silenzio poi, non solo facilita l’espressione dell’altro, ma è «germinativo», contribuisce cioè alla crescita di entrambi gli interlocutori. [23]
Educazione al conflitto
Nelle pagine precedenti abbiamo avuto modo di chiarire come differenze e diversità siano proprie del nostro essere uomini e persone: non sono frutto di invenzione ma un dato di fatto. L’incontro ed il confronto tra queste differenze può evocare sentimenti ed atteggiamenti negativi, non raramente anche consolidare pregiudizi.
Il razzismo, per esempio, è un «comportamento fatto per lo più di odio e di disprezzo nei confronti di persone dotate di caratteristiche fisiche ben definite e differenti dalla nostra» [24]. La storia ci insegna come tale odio arrivi persino ad essere teorizzato, possa diventare un’ideologia.
L’etnocentrismo, cioè il fissarsi sul proprio punto di vista, elevando in modo indebito i valori propri a valori universali [25], può essere un’altra modalità di reazione all’incontro delle differenze. Questo atteggiamento, in definitiva, è una sorta di sviluppo psicologico mancato: l’uomo dovrebbe infatti evolversi da uno stato iniziale di egocentrismo verso una posizione, più relativizzata, in cui sono ammessi gli altri con le loro diversità.
La stessa umanità, che un tempo riteneva di essere al centro dell’universo, ha seguito questa evoluzione.
Ma l’atteggiamento peggiore è probabilmente quello xenofobo, perché dominato dalla paura estrema (fobia, appunto) dello straniero (xeno significa appunto «straniero»), «che si esprime in forme di discriminazione e violenza. La xenofobia proclama l’incompatibilità di mentalità e di comportamenti tra differenti etnie; ritiene la coesistenza impraticabile e denuncia l’impossibilità di integrazione dei gruppi di immigrati» [26].
Anche l’eccesso contrario, cioè la «xenofilia» (filia significa «amore»), può essere una distorsione del dialogo fra le differenze. Non è sbagliato «amare lo straniero», ma questo può diventare un problema quando un individuo tende a sminuire quello che gli è proprio, vedendo come migliore ciò che appartiene agli altri. Si corre il rischio di assumere acriticamente valori e modi di vita dell’altro da sé: rientrano in questo atteggiamento anche certi esterofilismi politici ed economici degli italiani.
Per evitare di cadere in questi atteggiamenti è dunque necessaria un’educazione al conflitto, che non neghi o rimuova l’aggressività provocata dall’incontro con lo straniero ma insegni a saperla ben gestire. Lo stesso significato originario di questo termine (da ad-gradi che significa «muoversi», «camminare verso», quindi crescita e vitalità) [27] ci indica che l’aggressività può essere sana e costruttiva.
Educare al conflitto in un’ottica interculturale significa dunque insegnare a gestire i conflitti perché questi non siano distruttivi ma costruttivi della relazione. Secondo Butturini [28], tale educazione si articola in alcuni obiettivi:
1. riconoscere i conflitti;
2. accettare in profondità i conflitti, imparando ad eleborarli per inattivare quegli automatismi distruttivi che si basano sull’ignoranza ed il pregiudizio;
3. distinguere tra aggressività distruttiva e aggressività costruttiva. Nella nostra cultura, anche scolastica, l’aggressività è molto sanzionata ma bisogna tener conto che essa non è altro che una delle manifestazioni dell’uomo. Vi è un’aggressività che esprime violenza ed in questo caso è negativa, ma può manifestare anche la nostra personalità, come difesa del nostro spazio vitale e psichico, ed allora è costruttiva. Per distinguerla dalla prima, si parla oggi di «assertività»: essa non va sanzionata, va educata nel bambino, perché lo aiuta a crescere, ad affermare le sue idee, ad essere se stesso;
4. «transvalutare» il conflitto, attraverso il gioco, la vita di gruppo e l’umorismo;
5. gestire i conflitti cercando di non portarli alla rottura, quando si interrompe il dialogo e la relazione con l’altro. Non solo: il conflitto ben gestito dovrebbe portare ad acquisire nuove forme di complementarietà e di «convergenza verso livelli più alti di consenso» [29].
Gestire il conflitto non significa subirlo. La persona che cede rimanda il conflitto, non lo risolve, oppure lo «sposta» verso qualcuno ancora più debole, anche se in modo inconsapevole. Ecco la catena dell’aggressività maligna, della violenza. Solo dopo aver imparato a gestire i conflitti si rende possibile il dialogo conviviale delle differenze.
Educazione alla convivialità delle differenze
Se intendiamo la convivialità come la capacità di vivere assieme, riconoscendo che l’Altro esiste, in prospettiva interculturale occorre educare alla convivialità delle differenze.
A questo proposito scrive molto chiaramente Filippi: «La pedagogia dovrà farsi promotrice di iniziativa, nel duplice versante dell’agire e del sapere, di rispetto, di salvaguardia, di tutela, di ritrovamento di comuni denominatori, ovviando al pericolo della omologazione culturale (uguaglianza senza differenze), e senza che ciò conduca a una rinnovata egemonia etnocentrica (assolutezza delle differenze)» [30].
Ivan Illich propone addirittura la «società conviviale» come meta [31], nella quale l’individuo, rinnegato il consumismo, accetta una certa austerità, non pensa al proprio tornaconto e ricerca il bene comune. Perciò invita a costituire una società politica di uomini, coscienti della forza della loro ragione e del loro sentimento, del peso della loro parola, della serietà dei loro atti per scegliere liberamente l’austerità capace di garantire la logica del bene come norma dell’azione. La politica stessa è intesa come arte della convivenza tra gli uomini, che trova nell’elaborazione e nella promozione del bene comune il suo fine costitutivo.
Al di là della valenza socio-politica della proprosta di Illich, sembra interessante raccogliere l’invito all’autolimitazione personale per l’educazione alla convivialità delle differenze. Dal canto suo ogni comunità «dovrebbe (…) essere preoccupata di offrire spazi in cui possa emergere creativamente la differenza del soggetto non solo dagli altri ma anche da se stesso» [32].
Educazione alla pace
La pace può essere «il prodotto naturale di una società (…), in cui le persone e le personalità sociali collaborano, si tollerano, convivono e sono in grado di risolvere gli inevitabili conflitti in modo nonviolento» [33]. In questo senso l’educazione alla pace può essere un modo più ampio di concepire l’educazione interculturale, così come fin qui l’abbiamo intesa.
Educare alla pace significa infatti non solo promuovere le capacità di rispetto reciproco, di comunicazione assertiva, di buona gestione dei conflitti, di accettazione conviviale delle differenze, ma comporta una più globale educazione ai valori che sono costitutivi della pace stessa: «la verità, la libertà, la giustizia, la solidarietà-amore» [34]. Valori che, secondo Roveda, fanno parte «del comune alveo dell’umano, condiviso dal ragionamento razionale di tutti i popoli e nazioni» [35].
[36]
Ci si riferisce naturalmente non alla «pace negativa» (absentia belli), quella della diffidenza reciproca o quella con le armi, «contraffazione della vera pace» [37], ma alla pax positiva, «fondata sulla fiducia reciproca degli uomini e dei popoli» [38].
«Come ogni progetto, l’educazione alla pace non è un sogno falso, ma solo incompiuto» [39]. Occorre far comprendere che la pace positiva è un concetto dinamico, non un dato ma una conquista faticosa, non un bene di consumo ma il prodotto di un impegno, non un nastro di partenza ma uno striscione d’arrivo [40].
Per costruire la pace dobbiamo anche abituarci ad abbinarla a parole quotidiane. Parliamo quasi sempre di «festa della pace», «marcia della pace», «veglia della pace», «tavole rotonde sulla pace», «vertici sulla pace». Ne deriva l’immagine distorta che la pace sia circoscritta ad alcuni momenti particolari, estranieri al flusso dell’esistenza normale.
L’educazione alla pace passa invece attraverso la comprensione che, oltre alla festa, dobbiamo fare «ferialità di pace», anziché coniugarla con le «marce» dovremmo appaiarla con i percorsi quotidiani, con la fatica ed il sacrificio di tutti i giorni.
Fuente: educare.it
[1] Cfr. M.G. Galasso (a cura di), Scheda informativa Progetto EDINT del C.E.D.E, Documento n. 4, gennaio 1991.
[2] A. Casillo, Interculturalità e curricolo nella scuola elementare, in «Quadrante della scuola», 1990, n. 2, p. 71.
[3] Gruppo interdirezionale di lavoro per l’educazione interuclturale e l’integarzione degli alunni stranieri P.I. (a cura di), Il dialogo interculturale e la convivenza democratica(documento di sintesi), in «Annali della Pubblica Istruzione, 1994, nn. 1-2, p. 163.
[4] M. Santerini, La scuola nella società multiculturale: orientamenti per l’Italia e l’Europa, op. cit., p. 65.
[5] D. Demetrio, G. Favaro, Immigrazione e pedagogia interculturale, La Nuova Italia, Firenze, 1992, p. 11.
[6] A. Nardi, La sfida interculturale tra individualità e nuova comunicazione, cit., p. 28. Ci pare di poter leggere nella stessa prospettiva il contributo di E. Butturini al volume di A. Agosti (a cura di), Intercultura e insegnamento, op. cit., pp. 33-41.
[7] G. Corallo, Pedagogia. L’atto di educare. Problemi di metodologia dell’educazione, SEI, Torino, 1967, p. 282.
[8] G. Catalfamo, La dialettica del sociale e del personale nell’educazione, in AA.VV. , L’educazione sociale, La Scuola, Brescia, 1962, p. 167.
[9] N Galli, La concezione cristiano-personalistica, in AA.VV., L’educazione del cittadino, La Scuola, Brescia, 1990, p. 32.
[10] P. Bertolini, L’educazione interculturale: riflessioni pedagogiche, in «Scuola Viva», 1991, n. 4, p. 28.
[11] S. Blezza Picherle, Educazione al silenzio ed intercultura, in A. Agosti (a cura di), Intercultura e insegnamento, op. cit., p. 72.
[12] Ibidem, p. 70.
[13] L. Caimi, Per una scuola educativa nella complessità socio-culturale, in «Quaderno di aggiornamento per operatori della formazione professionale», 1993, n. 20, p. 26.
[14] Ibidem, p. 23.
[15] D. Demetrio, G. Favaro, Immigrazione e pedagogia interculturale, op. cit., p. 15.
[16] F. Larocca, Oltre la creatività l’educazione, La Scuola, Brescia, 1983, pag. 30.
[17] F. Larocca, Oltre la creatività l’educazione, La Scuola, Brescia, 1983, pag. 30.
[18] R. Mentegazza, Il soffio del diverso, in «Alfazeta», 1995, n. 42, p. 54.
[19] F. Larocca, Handicap indotto e società, op. cit., pag. 277.
[20] Ibidem, pag. 277.
[21] Ibidem, pag. 277.
[22] S. Blezza Picherle, Educazione al silenzio ed intercultura, op. cit., p. 67.
[23] Ibidem, p. 72.
[24] T. Todorov, Noi e gli altri, Einaudi, Torino, 1991, p. 57.
[25] G. Biancardi, P. Galeotti, G. Pasquini (a cura di), Materiali didattici sull’immigrazione, Cestim-Mlal, Verona, 1994, p. 35.
[26] Ibidem, p. 35.
[27] P. Roveda, La pace cambia, op. cit., p. 124.
[28] Ibidem, pp. 39-40.
[29] Ibidem, p. 40.
[30] N. Filippi, Radici etnoculturali e ragioni etnico-politiche di convivenza democratica, in A. Agosti (a cura di), Intercultura e insegnamento, op. cit., p. 20.
[31] I. Illich, La convivialità, Ed. Red, Como, 1993.
[32] E. Butturini, Educare alla pace nella scuola attraverso un approccio interculturale, op. cit., p. 39.
[33] M. Salvemini, Eirene: la città che c’è, in «Mosaico di pace», 1996, n. 5/maggio, p. 25.
[34] P. Roveda, La pace cambia, op. cit., p. 10.
[35] Ibidem, p. 50.
[36] La pace si pone dunque come la sintesi ultima dell’interculturalità.
[37] Ibidem, p. 28.
[38] Ibidem, p. 29.
[39] Ibidem, p. 236.
[40] Questa proposizione, come le altre due che seguono, sono liberamente riportate dalla relazione di E. Butturini al Convegno «Intercultura e insegnamento» tenutosi all’Università di Verona il 28-29 ottobre 1996.