L’accoglienza dei nuovi arrivati
di Maria Omodeo
BENVENUTO
Quando un allievo, un’allieva che parla poco o nulla di italiano arriva in una classe, il primo problema che di solito gli insegnanti si pongono è – naturalmente – quello di rilevare le sue competenze pregresse in lingua italiana e di metterlo nel più breve tempo possibile in grado di comprendere quanto si dice a scuola e di farsi capire.
In realtà il problema appare più complesso: sicuramente il non avere una lingua comune rende difficile la comunicazione, ma l’allievo può comunque essere aiutato a valorizzare il complesso di abilità e di competenze che ha.
Senza parole, bisogna creargli attorno un clima positivo e accogliente, che lo stimoli a socializzare e di conseguenza a comunicare, verbalmente e non verbalmente. Bisogna fargli sentire che lo si stava aspettando. Al di là della retorica di questa affermazione, l’ansia che il bambino ha è di solito quella di essere rifiutato e l’ansia che hanno insegnanti e compagni di riuscire ad entrare presto in comunicazione verbale con lui, gli fanno crescere questa ansia di non esserne all’altezza.
A volte per creare un ambiente accogliente basta anche poco, può essere già un buon punto di partenza la scritta benvenuto nella lingua del bambino o i cartellini plurilingue con le scritte “bagno”, “segreteria”, ecc. sulle porte, che lo aiutino ad orientarsi negli ambienti della nuova scuola. Ancora meglio, fornirgli una di quelle “istruzioni per l’uso della scuola” plurilingue che gli facciano capire il senso delle regole implicite nella vita scolastica (il suono della campanella, i ritmi della ricreazione, le uscite…) che per lui sono solo confusione e mancanza di regole: quanti sono i bambini d’origine straniera che si lamentano per il mal di testa da troppo rumore?
Per i cartellini plurilingue, i messaggi scuola – famiglia, ecc, rinvio al link con il sito del CD/Lei e alla sezione dedicata a questo scopo in questo stesso sito. Un’opera di facile utilizzo è stata realizzata a Torino dal Cidiss.
CAPIRSI SENZA PAROLE
E’ importante stabilire una relazione empatica con il nuovo arrivato, fatta di piccole attenzioni, parole pronunciate con calma e tono rassicurante (anche se il bambino non ne capisce il significato, ne capisce il tono amichevole, che è universale), è bene dargli piccole consegne comprensibili tramite esempi. Se il bambino è già scolarizzato nel suo paese, gli si possono dare icone con il comando scritto in italiano e nella sua lingua e gli si può insegnare a riconoscerne il suono pronunciato dall’insegnante. La cosa importante è manifestargli un’attenzione rassicurante.
STUDIARE ITALIANO
Vanno creati fin da subito momenti di studio intensivo di lingua italiana (al massimo 2 ore al giorno, meglio in due momenti separati, per rispettare i crolli d’attenzione derivanti dalla tensione nello studiare una lingua straniera in un contesto in cui tutto è incomprensibile). L’allievo / gli allievi anche di classi diverse possono essere portati fuori dalla classe in questi momenti per poter esprimere nel piccolo gruppo ciò che possono avere paura di esprimere in una interrogazione di fronte a tutta la classe.
L’INSERIMENTO IN CLASSE
Il bambino va inserito immediatamente in classe, con i suoi coetanei, perché diventi subito parte del gruppo, aiutandolo con giochi di socializzazione, attività in gruppi (meglio se di tipo artistico espressivo, di manipolazione…) e dandogli sempre esercizi da fare perché non si abitui ad estraniarsi dalla lezione. La legislazione italiana è molto esplicita su questo punto: i bambini vanno inseriti in base all’età, anche nel caso che non avessero scolarizzazione pregressa, perché la maturità complessiva di un bambino non deriva dalla sua alfabetizzazione. Nei lunghi tempi, mettere un bambino in classi indietro rispetto alla sua età perché non sa l’italiano, significa impedirgli di completare gli studi: quando l’adolescente si trova in classe con bambini più piccoli di lui, abbandona il campo.
Sull’importanza dell’entrare subito in classe, non mi dilungherò ulteriormente visto che già il sito ospita un forum ed un lungo articolo “Ghetti di vetro” su questo argomento.
IL RISPETTO DEL SILENT LEARNING
Anche di questo parliamo già diffusamente nel forum, non occorre dilungarsi sull’importanza di rispettare i tempi, i silenzi e le ansie dellìallievo, anche nel caso che la sua “fase del silenzio” duri a lungo, lasciandolo libero di adottare istintivamente la strategia di apprendimento dell’italiano più adatta a lui (c’è chi si “butta” subito a parlare, sia pure in modo scorretto, c’è chi preferisce entrare un po’ per volta nella lingua prima di dire le prime frasi…).
STUDIARE IN AUTONOMIA
Spesso i bambini che arrivano nelle scuole italiane da altri Paesi non sono abituati all’impostazione “informale” dello studio, a gestirsi tempi e modi autonomi di studio e ricerca. Chiedono alla scuola un percorso ben prestabilito, a tappe graduali, con esercizi calibrati. E’ molto difficile non rischiare di ripercorrere in modo ridondante alcune cose che gli allievi sanno già benissimo (demotivandoli perché gli si propongono “cose troppo facili”) o dare compiti troppo complessi che li demotivino per il motivo opposto. E’ però forse preferibile correre il primo rischio, perché le variabili che possono rendere difficile l’italiano sono molte: ad esempio un bambino che ha studiato per un anno a Milano al momento del suo arrivo a Firenze sembra non capire nulla, si tratta per lui di ricalibrare l’orecchio al nuovo accento degli insegnanti e dei compagni, o deve fare i conti con una nuova impostazione degli studi, o era stato abbandonato a se stesso? Ci vuole tempo per rilevare l’origine delle sue difficoltà.
Naturalmente bisogna stare attenti ad aumentare via via la complessità degli esercizi e delle attività da svolgere, in modo che non cali mai l’attenzione e l’interesse. Anche quando l’allievo ancora non sa parlare bene l’italiano bisogna sempre dargli qualcosa da fare, esercizi scritti, letture anche nella sua lingua, disegni, giochi logici. Può essere utile farlo aiutare a turno da un compagno, a cui il bambino straniero possa in cambio insegnare qualcosa che l’allievo autoctono non padroneggia bene (sta all’insegnante rilevare le competenze del bambino straniero che non abbiano bisogno di grandi competenze linguistiche: disegno, manualità, abilità nel calcolo…).
Bisogna poi stare molto attenti al passaggio dal linguaggio di tutti i giorni al linguaggio per studiare: non è detto che se l’allievo sa fare esercizi meccanici di sostituzione di articolo, ecc. abbia capito la regola grammaticale o le ragioni della regola e che la sappia riapplicare in autonomia. Ancora meno è probabile che l’allievo sia in grado di capire gli usi diversi della lingua per studiare storia, geografia, geometria… perché entri davvero nelle lezioni possono passare anche due o tre anni, non bisogna credere che simuli di avere difficoltà linguistiche per avere una scusa e non studiare, è piuttosto vero il contrario, può aver imparato a far finta (anche con se stesso) di comprendere più di quanto sia possibile in brevi esposizioni di tempo. Anche in questo caso è utile fargli studiare testi semplificati nella presentazione delle materie, meglio se sugli stessi temi che stanno studiando i suoi compagni, per non farlo sentire sempre diverso (il Centro Come di Milano ha realizzato varie dispense di questo tipo, il Cospe ha prodotto un testo di storia cinese bilingue).
L’ATTEGGIAMENTO NEI CONFRONTI DELL’ESPERIENZA MIGRATORIA
Il rifiuto o l’entusiasmo nei confronti dell’esperienza migratoria influenzano molto le modalità e i tempi d’apprendimento della lingua italiana e dell’inserimento in classe. Per conoscere meglio e valorizzare il percorso di esperienze e di studi già svolti, per capire come l’allievo si pone di fronte all’esperienza migratoria, uno strumento ideato dal Cospe all’interno del progetto Socrates “Me Too” è quello dei questionari bilingue a risposte chiuse, di cui nel sito riportiamo quello italiano – albanese, mentre quelli it/arabo, it/cinese, it/romanè possono essere richiesti direttamente al Cospe, che si impegna tra l’altro ad inviare a chi gli fa avere i questionari compilati, anche qualche suggerimento caso per caso.
Quando i bambini appena arrivati non sono sufficientemente scolarizzati nel loro Paese d’origine per poter rispondere da soli, li si può far aiutare da un genitore o da un altro parente. Trovare la propria lingua madre di solito rassicura il bambino, che si sente “atteso”, anche se si deve prestare estrema attenzione a non farlo sentire in imbarazzo se invece non conosce la propria lingua madre scritta (o la lingua che secondo gli insegnanti italiani dovrebbe essere la sua lingua di scolarizzazione, come nel caso dei bambini indiani). E’ estremamente umiliante per un bambino sentirsi dire “ma come, non sai neanche la tua lingua!”.
Quando l’insegnante ha rilevato in cosa consiste il percorso di studi nel Paese d’origine, si potrà fare riferimento ai testi sulle metodologie didattiche che cominciano a trovarsi: il Centro Come di Milano ha prodotto vari opuscoli informativi su varie aree, il Cospe ha prodotto una ricerca sulle metodologie cinesi ed ha pubblicato alcuni articoli sul mensile “Zhong Yi Bao – Giornale Cinese Italiano” sulle scuole d’origine degli allievi provenienti dalla Provincia Zhejiang.
Non bisogna impedirgli di parlare la sua lingua né spingerlo a mantenere quella che secondo noi autoctoni è la “sua” identità culturale (ad esempio se vuole darsi un nome italiano, bisogna lasciargli fare questa scelta). Si tratta di identità in transizione, che vanno rispettate.
Un bambino è un bambino, con il suo bisogno di sentirsi alla pari con gli altri e il suo diritto di essere diverso, anche dai suoi connazionali o da suo fratello gemello. In tanta parte della pedagogia interculturale esiste il rischio di generalizzazioni “culturaliste”, sia positive (“tutti i cinesi sono bravissimi nel calcolo”), sia negative (“gli asiatici sono chiusi”). Se un bambino cinese ha interessi umanisti e non sa le tabelline, è condannato dallo stereotipo più del suo compagno autoctono; se un bambino asiatico è espansivo e chiassoso, chiacchierone come il compagno autoctono, può sentirsi etichettato a causa della sua origine: “si è italianizzato troppo”.
Da una parte si chiede a questi bambini di integrarsi, dall’altra si vorrebbe che non prendessero i cattivi esempi, che non diventassero “più italiani degli italiani”.
Cercare di valorizzarlo facendogli giocare un ruolo da “piccolo antropologo” o geografo del suo Paese può fargli rischiare ulteriori umiliazioni, lo può mettere in imbarazzo… anche in questo caso sta alla sensibilità dell’insegnante lasciare maturare i tempi, lasciare che l’allievo abbia la voglia in prima persona di raccontare qualcosa del suo Paese e di sé, senza pericolose forzature.
COMPETENZE EXTRALINGUISTICHE
E’ abbastanza sterile cercare di rilevare subito le competenze linguistiche in italiano dell’allievo, anche se è proprio questo di solito il primo bisogno avvertito dall’insegnante: spesso le prime parole note sono quelle per barcamenarsi nella burocrazia, con termini quali “permesso di soggiorno” o quelle per aiutare i genitori nei loro rapporti con chi dà loro lavoro, con termini estranei alla vita scolastica ed estremamente specialistici. Conviene iniziare insegnando ai bambini le parole che gli rendano facile la vita scolastica, e via via rilevare i progressi, piuttosto che cercare di scoprire ciò che il bambino sa già al suo arrivo.
E’ invece possibile e fondamentale rilevare le abilità e le competenze extralinguistiche, presentando materiali in cui la grafica abbia un ruolo importante e l’intuizione dei comandi sia facile. A tal fine, al Cospe abbiamo ideato una serie di quaderni per rilevare le competenze e le abilità di base, di memoria, di logica, assieme ad una serie di suggerimenti di giochi di socializzazione, riuniti sotto il titolo “Parole non dette”. In questi quaderni abbiamo cercato di eliminare i messaggi linguistici, sostituendoli con una iconografia e la traduzione in varie lingue dei comandi, abbiamo utilizzato una grafica realista e tentato di eliminare i riferimenti culturali eurocentrici, per mettere alla pari allievi autoctoni e d’origine straniera, senza penalizzazioni. Anche i livelli di difficoltà sono mescolati, perché ciò che può risultare difficile per allievi autoctoni può invece risultare facile per gli altri allievi e viceversa.
IL MANTENIMENTO DELLA LINGUA MADRE
Tutto questo sito ed il progetto Socrates Me Too sono dedicati all’importanza del mantenimento e del rafforzamento dalla lingua madre, non mi dilungherò qui su questo tema, possibilmente bisogna fornirgli materiali bilingue (se si è rilevato che ha già una certa competenza in lingua madre) perché possa sentirsi più sicuro del riconoscimento culturale e sociale e possa mantenere vivo l’interesse per la sua lingua madre. Meglio sarebbe organizzare corsi bilingue.