L’educazione interculturale nella scuola tra uguaglianza e differenze
di Milena Santerini
Secondo Peter Figueroa, i due obiettivi di un’educazione interculturale consistono nell’uguaglianza e nell’apertura. Le due finalità vengono a intrecciarsi, ma anche a elidersi. Infatti, realizzare una uguaglianza tra le culture presenti in una società o nella scuola può significare perdere la ricchezza e la varietà della diversità; viceversa, promuovere un’apertura radicale verso la differenza può comportare una sottovalutazione della cultura ospitante. Il difficile equilibrio tra queste due dimensioni necessita, di conseguenza, di una serie di azioni, che prevedano, tra l’altro, l’adattamento del curricolo e una specifica formazione degli insegnanti. In questo senso problemi didattici e pedagogici vengono a sovrapporsi.
INDICE
1) Situazione attuale e ordinamenti
2) Problematiche dell’inserimento degli alunni stranieri
3) Scuola come spazio di socializzazione: tra universalismo e relativismo
1) Situazione attuale e ordinamenti
Per quanto riguarda la situazione attuale nella scuola italiana, tenendo conto della differenza tra immigrazione e migrazioni (insieme dei flussi non ancora stabilizzati), si ha un andamento che vede dal 1989/90 al 1992/93 un aumento da 2.952 a 6.202 alunni nelle scuole materne, mentre se si considerano gli anni dal 1989-90 al 1993-94 si avrà:
– aumento da 6.811 a 19.256 nelle scuole elementari
– aumento da 2.605 a 8.501 nelle scuole medie (9.089 nel 1994-95)
– aumento da 3.215 a 5.324 nelle scuole superiori (6.060 nel 1994-95).
Come si nota, l’aumento degli alunni «venuti da lontano» nelle scuole del nostro paese è stato molto rapido; tuttavia, l’incidenza media sul totale resta bassa: 2-4 per mille.
Ci si può chiedere come mai, pur essendo il fenomeno migratorio ancora debole, e molto minore che negli altri paesi dell’Europa occidentale, esso sia al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica. In realtà, si tratta di nuove relazioni interculturali, presenze che chiedono di essere riconosciute dal diritto nazionale e internazionale, dalla società e dalla scuola senza che gli adulti vengano considerati tout-court un’area-problema e i minori vengano identificati e pre-giudicati come fascia portatrice di svantaggio.
La scuola italiana ha cominciato ad affrontare il problema dell’inserimento degli alunni stranieri a partire dalla fine degli anni 80, quando cioè l’afflusso migratorio nel nostro paese si è fatto consistente. Oltre alle risorse offerte dalla legislazione (Leggi 419/74 e 517/77) per operare un progettualità e garantire una flessibilità didattica, che rimangono valide in generale, vi sono alcune disposizioni sul tema specifico dell’inserimento degli extracomunitari e cioè le Circolari n.301 del 1989 e n.205 del 1990, la Pronuncia del Consiglio Nazionale della Pubblica istruzione C.M.122 28/4/92 su «L’educazione interculturale nella scuola», il Parere CNPI «Razzismo e antisemitismo oggi: il ruolo della scuola», la C.M. 73 del 2/3/94 «Dialogo interculturale e convivenza democratica: l’impegno progettuale della scuola».
I contenuti e lo spirito delle circolari rispecchiano l’evoluzione messa in luce negli studi di Antonio Perotti sulla situazione in ambito europeo. Infatti nella prima Circolare (301/89) si parla soltanto di «inserimento degli immigrati». La scuola italiana si trova in questi anni (1988-90) di fronte all’emergenza immigrati e tenta di «risolvere un problema». Di conseguenza sfrutta le risorse già fornite dalla legislazione e invita in modo particolare a conoscere il fenomeno (livelli culturali, modelli di comportamento etc). Interviene inoltre sull’organizzazione scolastica, proponendo di raccogliere gli alunni immigrati in gruppi che non superino le quattro-cinque unità per classe. Dal punto di vista didattico, non compaiono in questo periodo indicazioni particolari sul tema dell’immigrazione: si parla ancora di individualizzare, ovvero di definire progetti specifici in base alla singolarità delle situazioni, come in passato rispetto alle differenze di tipo socio-economico.
Nella seconda Circolare (205/90) si rileva invece, a distanza di un anno, una riflessione più approfondita. Accanto alle indicazioni di tipo organizzativo didattico sull’inserimento di alunni immigrati compare l’educazione interculturale «mediazione non riduttiva degli apporti culturali diversi ma animatrice di un confronto tra di essi». Si inquadra l’educazione interculturale nel contesto democratico per la promozione della convivenza e la si considera un obiettivo «anche in assenza di alunni stranieri», richiamandosi ai documenti programmatici dei diversi ordini dove si parla di educazione alla comprensione e alla solidarietà.
La pronuncia del Consiglio Nazionale della P.I. del 1992 risente poi del clima preoccupato per gli episodi di razzismo e xenofobia da parte dei giovani e si dichiara con forza a favore dell’educazione interculturale. In questo documento viene approfondito il problema della convivenza tra culture, rifiutando il relativismo culturale in nome di fondamenti transculturali, si esamina il contesto sociale e si propongono linee di intervento (gruppi di lavoro collegati nei vari Provveditorati, adattamento della normativa sul diritto allo studio).
Infine l’ultima C.M. del 1994 contiene l’invito a mediare tra approccio relativista e scelte universaliste ed affronta tre problemi: programmi, discipline ed attività.
2) Problematiche dell’inserimento di alunni stranieri
I nodi attuali rispetto alla presenza degli alunni immigrati riguardano aspetti didattici, curricolari, organizzativi, educativi. Farò solo alcuni cenni su aspetti amministrativi e didattici per affrontare poi le questioni di carattere pedagogico.
* Sia i docenti che il personale direttivo si trovano di fronte al problema delle iscrizioni di alunni che non dispongono di regolare documentazione. La C.M. n.5 del 12/1/1994 sancisce il diritto all’accoglienza anche ai minori in situazione di irregolarità giuridica pur se «con riserva» e la n.119 del 6/4/95 prevede il rilascio del diploma anche agli alunni iscritti con riserva, perché il titolo non costituisca un requisito per la regolarizzazione della presenza in Italia.
I capi di istituto generalmente suppliscono alla mancanza di titoli in questo modo: per la documentazione anagrafica vengono utilizzati altri documenti di cui sono in possesso i genitori e una autocertificazione; per la documentazione scolastica si procede ad un accertamento culturale; per le vaccinazioni si opta in genere per la ripetizione del ciclo.
Al di là delle difficoltà pratiche, tale orientamento della scuola esprime la volontà di non privare in nessun caso gli alunni del diritto all’istruzione. Dietro il problema dei documenti si nasconde una realtà drammatica (fughe, attesa di ricongiungimento familiare , provenienza da paesi sconvolti dalla guerra), di fronte alla quale la scuola non può trincerarsi nella burocrazia ma deve realizzare il diritto allo studio previsto dalla Convenzione Internazionale dei Diritti del bambino.
* La differenza linguistica è il fattore più evidente, spesso correlato con il ritardo scolastico. I ragazzi che non sanno l’italiano partono svantaggiati e hanno grandi difficoltàÖ nel recuperare.
Il modello assunto negli studi più recenti è quello della «varietà di apprendimento»: ovvero la lingua è un sistema che si evolve da forme elementari a complesse, sotto l’influsso di fattori di vario tipo (sociali, culturali, individuali); l’influenza sociale fa sì che ci sono bambini a rischio di non apprendimento o di marginalità, a cui non basta essere esposti alla comunicazione linguistica di tipo naturale: da qui l’utilità dell’intervento educativo.
Inoltre, come è noto, attraverso la lingua avvengono la comunicazione e la comprensione in senso globale. Non si tratta perciò solo di insegnare dei vocaboli, ma di aiutare gli alunni ad immergersi in un altro mondo, in un’altra cultura: la lingua ha una funzione simbolica, e apprenderla o meno dipende in gran parte dalle disposizioni di tipo «affettivo» che si hanno verso di essa. Gruppi desiderosi di integrarsi giungono rapidamente ad imparare la seconda lingua; è noto invece che dove esistono conflitti, come nel caso dei nomadi, sarà più difficile da parte degli alunni impadronirsi di una lingua che si sente «nemica».
Occorre di conseguenza tener conto dei fattori psicologici ed affettivi. Solo in contesti comunicativi «veri», cercando di non imporre in modo aggressivo la propria lingua, si può aiutarne la comprensione; creare situazioni stimolanti, fare della classe un ambiente di comunicazione efficace è un modo per aiutare tutti gli alunni, e non solo quelli stranieri , organizzando allo stesso tempo attività o laboratori in loro aiuto.
L’influenza dei fattori socio-culturali si avverte anche attraverso i gruppi di coetanei: è attraverso la «lingua dei giovani» che molti adolescenti immigrati imparano l’italiano.
E’ in corso a livello internazionale un acceso dibattito sull’insegnamento della lingua d’origine degli alunni immigrati. La scuola si trova di fronte alla scelta tra conservare, rispettare o sostituire la lingua d’origine. Le esperienze nei vari paesi europei mostrano che il problema è tuttora aperto.
In un primo momento, all’arrivo delle prime ondate di immigrazione in Europa, l’integrazione si è svolta soprattutto cercando di fornire in tempi brevi la seconda lingua ai nuovi arrivati. Solo in un secondo tempo, motivi socio-culturali ed etici hanno provocato una riflessione su questo processo di integrazione forzata: si è allora messo l’accento sul rispetto della lingua e cultura di origine (LCO). A sostegno di questa posizione si trovano gli studi che evidenziano come solo attraverso il pieno possesso della propria lingua sia possibile un apprendimento completo della seconda (vedi ricerca su bambini profughi dalla Bosnia).
Le situazioni di fatto sono molto differenti. Là dove esistono comunità di immigrati compatte dal punto di vista culturale si creano le premesse per l’insegnamento della LCO. In Italia vi sono già alcune esperienze in questo senso, soprattutto per gli alunni cinesi. In questi casi, ad esempio, viene realizzata una collaborazione con Ambasciate o Consolati. Il ruolo degli enti locali è particolarmente importante in questo campo per collaborare e fornire risorse. E’ frequente la richiesta di un mediatore (la figura è prevista dalla C.M. n.205) che aiuti nei rapporti con le famiglie e contribuisca a conoscere situazioni e culture.
Dal punto di vista organizzativo, è difficile però pensare che un tale servizio possa essere esteso. La scuola necessita di uno strumento linguistico «ad alto livello di formalizzazione», cioè in genere la lingua del paese. Difficile pensare, di fronte alle tante identità culturali presenti nelle classi italiane, che si possa pervenire ad insegnarle tutte, ma ciò non toglie che le esperienze di affiancamento della LCO siano possibili ed auspicabili.
Gli immigrati si trovano fino ad oggi immersi nella dinamica linguistica in evoluzione della nostra società e gli adolescenti-giovani possono contribuire all’evoluzione linguistico-culturale.
3) Scuola come spazio di socializzazione: tra universalismo e relativismo
Nella C.M.73/94 si afferma: «L’educazione interculturale promuove il dialogo e la convivenza costruttiva tra soggetti appartenenti a culture diverse». Questo concetto può essere esaminato da due punti di vista:
a) l’alunno immigrato inserito nella scuola
b) i valori che la scuola deve trasmettere (anche in assenza di alunni immigrati).
a) L’educazione interculturale, come è noto, parte dal concetto di cultura come insieme di modi di vita, tradizioni, valori di persone e gruppi. L’insegnante può considerare la creazione di questo dialogo non come un compito in più, ma come un arricchimento del rapporto educativo. Si tratta anzi tutto di valorizzare la cultura d’origine e condurre gli alunni alla coscienza di questa appartenenza; il primo è quindi quello di un rispetto e di una conoscenza delle culture diverse.
Ma ciò – ed è un’esigenza che accompagna la prima – va fatto valorizzando le persone nella loro singolarità e globalità, evitando, come ha scritto F.Lorcerie, «di imporre un’immagine differente da quella che hanno di sé», valorizzando le risorse di ciascuno perchè possa sviluppare quelle capacità di adattamento, innovazione, relazione necessarie nel mondo attuale.
La prospettiva personalista dell’educazione interculturale è quella di considerare l’identità nella sua specificità ed anche nelle sue trasformazioni. Infatti i fattori geografici si intrecciano con quelli storici e sociali. Nella sua stratificazione, la cultura originaria sovrappone elementi nuovi, legati alla modernità, all’urbanizzazione , ai ruoli sociali che cambiano. E soprattutto, se si accetta il concetto dinamico di identità, ne consegue che l’immigrato non porta soltanto con sé la sua identità culturale di origine, ma anche quella nuova, di chi è entrato in rapporto con un’altra società .
Il confronto, in questa prospettiva, come si è detto, non avviene tra culture, ma tra persone di diverse identità culturali. La nuova identità sarà quella di chi ha messo in relazione la sua origine con il nuovo contesto in cui è posto; e sarà ancora diversa domani, nell’incontro e nella comunicazione che crea novità. Così la persona non solo presenterà una identità specifica e irriducibile, ma essa sarà in parte anche il frutto del rapporto educativo, e della capacità di comunicazione concreta e storica di chi educa.
Inoltre, ne consegue la necessità educativa di porsi il problema della comunicazione in termini di comprensione dell’altro, compiendo un percorso che parte dalla conoscenza ma attraversa la necessità di riconoscimento e di conferma. Formare in senso interculturale significa riconoscere l’altro nella sua diversità senza tacerla con imbarazzo ma senza farne una prigione culturale, creare comportamenti di conferma e canali di comunicazione con gli altri senza riduzionismi.
Oltre al passato e alle origini, occorre considerare il presente ed il progetto di vita di chi è educato. Si tratta cioè di essere consapevoli che il rapporto educativo collabora alla costruzione di una nuova identità socio-culturale, si nutre dello scambio tra appartenenza passata e presente.
Infine, ogni relazione apre il problema dei comportamenti e della cultura di chi educa, con le relative percezioni, reazioni, capacità di relazione. Senza rischiare di concentrare tutta l’attenzione soltanto sull’educatore, dimenticando chi viene educato, si pone tuttavia il problema di interrogarsi su quello che la propria cultura induce a credere, capire e ascoltare dell’altro. Per comprendere gli è indispensabile conoscere se stessi, ed in questo senso – non a caso – si può considerare la relazione interculturale come occasione auto-riflessiva. L»effetto specchio» induce a confrontarsi e a criticarsi, svelando rigidità e stereotipi del proprio modo di pensare, aprendo nuove possibilità di comprensione.
Con Carlo Nanni si può in conclusione affermare che » la strategia interculturale consiste anzitutto nel riportare la questione della multiculturalità alla vita delle persone e delle inter-relazioni che costituiscono l’insieme del loro tessuto relazionale e socio-culturale», e tale strategia ha come matrice sottostante l’»intelligenza relazionale». Anche per Perotti la riflessione pedagogica sulle culture, allo scopo di stabilire una simpatia, o «empatia», ed una pratica della solidarietà tra «diversi» o «lontani» va inserita in una prospettiva personalista: «è la relazione che sta al cuore dell’interculturale».
b) Riguardo ai valori che la scuola deve trasmettere, partiamo dalla affermazione della C.M. 73: «I valori che danno senso alla vita non sono tutti nella nostra cultura, ma neppure tutti nelle culture degli altri (..). Essi consentono di valorizzare le diverse culture, ma insieme ne rivelano i limiti, e cioè le relativizzano (..). Allo stesso tempo si rinviene nel valore universale della persona il fondamento di una comune cultura e si riconosce nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (ONU 1948) l’espressione dei valori di generale consenso. Ad un approccio relativista viene dunque a corrispondere una visione universalista».
Il dilemma tra universalismo e particolarismo relativista è presente nelle scienze umane e sentito nella scuola. Come ha scritto Olivier Reboul, «L’opposizione tra l’universalismo del filosofo e il relativismo del sofista si ritrova, sotto altre forme, nella nostra stessa cultura. Noi oscilliamo tra le due tesi, che ci appaiono ambedue insostenibili, soprattutto in educazione».
I contributi delle scienze dell’educazione (psicologia, antropologia, sociologia) hanno reso sempre più difficile un’educazione astratta e non contestualizzata. L’universalismo è stato ritenuto una sorta di etnocentrismo più o meno mascherato. L’educazione occidentale ed europea, in passato, ha assolutizzato la sua cultura rendendola norma per tutte le altre. Universalista è stato poi il pensiero illuminista, capace di trascendersi e valido per tutti, ma rivolto all’Uomo astratto più che ai singoli nella loro specificità.
A questo universalismo si è reagito con l’affermazione delle particolarità e delle differenze, contrapponendo il diritto delle minoranze ad essere rispettate nella loro diversità. Tuttavia una pura affermazione del diritto alla differenza sembra insufficiente. Il filosofo Apel afferma: «Ponendo l’accento solo sull’alterità non si rischia forse di incoraggiare comportamenti simili a quelli dei primi coloni che trovandosi di fronte ad essere diversi da loro non li considerarono neppure umani e non trovarono quindi sconveniente massacrarli?». Senza arrivare a questi rischi, l’insistenza sulle differenze rischia di sottolineare gli aspetti basati sul folklore, di enfatizzare la differenza «etnica» (concetto che rischia di essere reificato come la «razza») ed alzare maggiormente le barriere che si vorrebbe eliminare.
L’universalismo che livella ed assimila tutte le culture può dunque rivelarsi violento; in modo diverso, come si è detto, questo rischio può sussistere anche con il relativismo, cioè quando si ideologizza le diversità.
L’atteggiamento relativista, che ha posto le culture su un piano di parità, ha assunto il positivo ruolo di ampliare gli orizzonti ristretti di una visione del mondo uniforme e eurocentrica, «suscitando», come ha scritto Lanternari, «comprensione, simpatia e tolleranza proprio per quei gruppi umani che un etnocentrismo altezzoso poneva nella barbarie, nell’antistoria, in una specie di limbo pre-culturale».
Il pensiero relativista, soprattutto nella sua divulgazione più superficiale, è da non pochi decenni giunto a trasformare e smussare etnocentrismi, sensi di chiusura e di superiorità, ha contribuito a porre in dubbio sia la gerarchizzazione delle culture che i vari tipi di evoluzionismi, più o meno mascherati.
Tuttavia, una delle critiche più rilevanti da apportare al relativismo in educazione, è quella di considerare equivalenti tutte le opzioni cancellando i valori ed impedendo quindi di operare un giudizio morale sulle culture stesse.
C.Camilleri, ad esempio, pur fautore del relativismo come «presa di distanza» dall’etnocentrismo occidentale, sostiene che questo procedimento relativizza tutti i valori, tranne quelli che li fondano, e colloca la normatività al di fuori del campo dell’antropologia. Vi è una istanza superiore che presiede alle scelte morali, mentre l’antropologia non farebbe che fornire informazioni e sapere sulla possibilitàÖ di scelta.
Anche L.Secco si collega a valori universali (e alla lezione kantiana) in quanto «l’abbandono dell’universalismo implicherebbe l’universalità del relativismo», con il rischio di non mettere a fondamento, ad esempio, il valore della vita umana. Questo tipo di argomentazioni, come si è detto, fanno parte della sfera normativa e sono elaborate anche da Reboul che, criticando il relativismo, attribuisce universalità proprio al valore dell’incontro, della tolleranza, della comprensione. Dal punto di vista normativo, e per quanto riguarda la sfera morale, infatti, l’educazione si trova di fronte alla necessità di non rinunciare al fondamento consensuale sui valori fondamentali della vita umana, in situazioni di pluralismo culturale.
Se quindi un’apertura critica sul proprio modo di pensare è indispensabile per il dialogo, essa non può tuttavia esaurire il fondamento della comprensione interculturale. Di conseguenza sul piano etico va operata una critica all’omissione dell’inserimento delle culture nell’ordine morale e personale, ordine all’interno del quale il valore assoluto è rappresentato anzitutto dalla persona umana. Esiste infatti la necessità per ogni cultura di un «metro valutativo meta-culturale», che giudichi moralmente ogni apporto o scelta caratterizzata culturalmente. Va dunque cercata, oltre il relativismo, un nuovo rapporto tra culture.
Il processo che si è sviluppato nelle scuole europee dagli anni 80, secondo Allemann Ghionda, ha seguito un andamento «pendolare» tra gli orientamenti di universalismo e particolarismo/relativismo di cui si è parlato finora. Anche la scuola italiana ha seguito all’inizio un orientamento «assimilazionista», scegliendo di favorire la cultura nazionale e ponendo in secondo piano gli apporti culturali degli alunni immigrati. In una seconda fase, come ha messo in evidenza Perotti, ha poi optato per un diffuso relativismo, che ha contribuito a ristabilire l’importanza delle culture minoritarie. Oggi, si tratta di pervenire ad una effettiva e decisa scelta interculturale, favorendo la possibilità che alunni provenienti dal lontano, con i loro contributi linguistici, culturali, religiosi, possano dialogare, creando cioè le possibilità di un confronto dinamico e di una reciproca trasformazione.